Intervista esclusiva con Hans Pahniermelsky, pensatore di destra recentemente rivalutato dalla sinistra. Prolegomeni a una…
Filosofia e comicità
«Passiamo metà del tempo a deridere ciò in cui gli altri
credono e l’altra metà a credere in ciò che gli altri
deridono».
Dopo aver scritto questa frase mi sono chiesto se avevo scritto una frase con
intonazione comica o filosofica. Se in essa prevaleva un’ironica liberazione o
una malinconica riflessione. Se volevo con questa frase chiudere con una risata
o avviare una discussione. Se ero nell’esorcismo comico o nell’endorcismo
filosofico. E quale emozione mi spingeva.
L’emozione, forse, di desiderare che le mie emozioni fossero comprese, e la
delusione di vederle ignorate. Questo desiderio di condivisione, di calore della
discussione, appartiene all’animo del filosofo come a quello dell’ironista. Ho
pensato allora che quello che avevo scritto apparteneva a tutti e due i mondi,
esattamente in un punto dove i due pensieri, mondi, discipline e grammatiche, si
toccavano. Ma non saprei dire con certezza se questo contatto, questo
avvicinamento è genetico o innaturale, voluto da me o casuale. Potrei
dire che la frase descrive abbastanza bene uno sforzo comune alla filosofia e
alla comicosofia.
Il comico irride alcune cose e altre le rispetta profondamente. Niente è
più personale della risata: ciò che per me è sabotaggio per altri
è linguaggio sacro, ciò che per me è litote ironica per
altri è inflazione retorica. E come comico mi sorprendo a non ridere, a
offendermi, perché qualcuno ha toccato con l’arma dell’irrisione qualcosa
che rispetto profondamente, o che amo. Pessoa diceva: le lettere d’amore sono
ridicole, se no non sono lettere d’amore. Dipende se l’ho scritta io o leggo la
lettera di un altro.
E così nel cammino della filosofia, ognuno incontra idee che lo
emozionano, che si condividono e accolgono e altre che si scacciano, talvolta
sprezzantemente, pensatori che ci sembrano indiscutibili e che ci stupiamo di
vedere attaccati, e altri pensatori indispensabili ai più che noi
deridiamo o troviamo insignificanti.
Non credo a una filosofia regno della riflessione e a un comico regno della
pulsione emozionale. Credo che la filosofia sia una passione e abbia vicino al
momento razionale un momento di pura, delirante immaginazione. E che dopo una
iniziale esplosione di estro, il comico comunichi attraverso procedimenti di
riflessione, di tecnica, di matematica direi, estremamente precisi.
Comicosofia e filosofia vivono di scelte, contraddizioni, di spasmi, di
ribaltamenti. Non sono un mondo calmo, se trovano una saggezza è
attraverso una lunga serie di sfide intellettuali più o meno nobili.
Quindi due pensieri della differenza che non cercano solo consonanze o armonie,
ma prospettive nuove e nascoste della realtà. Pensieri
dell’ulteriorità e dell’astrazione. Rispettose del grande archivio delle
idee passate, ma sempre alla ricerca di un punto nuovo, ove nessuno è mai
arrivato, nell’interpretazione e nell’invenzione. E mi fermo perché come
sempre la riduzione della filosofia ad argomento semplice suscita la sua
ribellione, e il comico si ribella a troppe definizioni filosofiche. Ne
citerò due tra breve.
Se vogliamo trovare punti di amicizia tra ironia e filosofia l’amicizia è
di vecchia data, dai tempi di Socrate. Più incerta l’amicizia tra comico
e filosofia, intendendosi come comico un’ironia, una tensione metaforica non
solo cognitiva ma anche di puro divertimento. Ma è anche facile trovare
subito delle vere o presunte inimicizie: la filosofia cerca le verità
ultime, l’ironia le verità penultime, la filosofia regno della
metafisica, il comico regno della patafisica quotidiana, filosofia luogo di
complessità da ordinare, comicità luogo di complessità da
far proliferare.
Alla fine scopriremo forse che comicità e serietà si attraggono e
si respingono in continuazione, diciamo che ogni oscillazione dubbiosa,
ambivalente della filosofia può portarla verso l’ironia e ogni
oscillazione metafisica, profonda del comico lo porta verso la filosofia. In
questo esercizio di equilibrio sembra quasi che a ognuno piaccia spingere o
attrarre l’altro dalla sua parte. L’ironia letteraria così aspetta che il
filosofo oscilli sul trampolino della complessità verbale o della
bizzarria teorica per trasformarlo nel filosofo comico, dall’Aristofane che
ferocemente accomuna nella derisione sofisti e Socrate nelle Nuvole, al
Panurge di Rabelais, al Pangloss leibniziano di Voltaire, al Selby di Flann
O’Brien, al filosofo-criminale di Tibor Fisher. Personaggi a cui la caricatura
però non toglie la dignità della parola filosofica, la mette solo
in difficoltà, alla verifica di un terreno non suo.
Così la filosofia tende al comico il peggior agguato. Quello della
spiegazione, della catalogazione, della riduzione, di portare nel mondo
metaforico e simbolico del comico il virus del concetto e della catacresi. Nulla
spaventa il comico come quando si sente inseguito da una definizione. È
pronto a uccidersi per non farsi prendere! Ecco due definizioni del comico che
sono al tempo stesso vertiginosamente comiche e filosofiche, quella di
Totò, «Il comico è la lotta tra il bene e il male con la
vittoria finale della vigilanza notturna», che è al contempo
battuta dell’assurdo e koan di filosofia zen, o puro sofisma. L’altra
è di Groucho Marx: «Non accetterei mai di fare parte di un club che
mi accetta tra i suoi soci». Vertiginoso paradosso che rivela la
difficoltà di un punto dove situare la visione iniziale del comico, se
nella solitudine o nella socialità.
Ma anche in filosofia potrebbe significare: un pensiero che cerca autonomamente
la verità deve basarsi su verità già raggiunte da altri, ma
deve in qualche modo non chiamarle verità, metterle alla prova, o gli
mancherà la spinta verso l’ulteriorità. In tutti i casi siamo nel
grande aleph dell’immaginazione, in cui la propria visione si accorda e discorda
con la visione degli altri, e cerca la sua unicità. Ed è su questo
che voi filosofi potreste riflettere sicuramente meglio di me: qual è il
tipo di astrazione che è comune all’ironico e al filosofico o quale li
differenzia. Qual è il loro modo di operare la ritenzione dell’assente,
come dite voi, o il lato comico nascosto, come diciamo noi. E non diamo come
definizione la filosofia è seria, il comico no. La serietà è
interna al genere: ho letto filosofi che mi hanno formato e vedo in televisione
filosofi che mi fanno molto ridere, ci sono comici che mi hanno insegnato e
comici che mi fanno vergognare di appartenere al settore.
Il contrario del comico, ho sempre detto, non è il tragico, ma
l’indifferenza. Il comico cammina a un passo dal tragico come la filosofia
cammina a un passo dal delirio. Io, forse perché vengo da studi
filosofici e sono approdato alla pratica della scrittura narrativa e ironica,
spesso cerco le cose che li avvicinano, e per questo cerco l’emozione in tutti e
due, ciò che li muove, non ciò che li conclude. Li considero,
ripeto, due pensieri che procedono sotto la luna dell’immaginazione oltre che
della ragione. Pensieri complessi. Guai a chiamare semplice il mondo del comico.
Direi che la figura stessa del comico non è semplice, ma polimorfa e
contraddittoria. Il comico è un dono e come tale ambivalente, il comico
è lo xenos che entra nella casa dell’ospite tranquillo, il pensiero
razionale. Che sia accolto o scacciato, lascerà il segno. I comici sono
al tempo stesso conservatori e distruttori di luoghi comuni, moralisti e ribelli,
solitari e comunicativi, nobili e volgari. Un comico deve vivere calorosamente
in mezzo alla gente per osservarla e farne oggetto di risata, ma anche tenere
una distanza a volte scettica, cinica, sdegnosa, sprezzante. Il comico
— come già detto — è pura invenzione, caos,
estro, ma anche tecnica e matematica, tempo comico, scrittura precisa. Il comico
conosce, come il filosofo, la difficoltà di conciliare la visione delle
idee con la loro condivisione e descrizione.
Gli manca forse, rispetto alla filosofia, una tenacia della profondità.
Allora restiamo in dubbio su affinità e diversità, ma su una cosa
non ho dubbi e guai a chi la deride: che linguaggio ironico e ricerca filosofica
hanno dei nemici in comune, e soprattutto in questo tempo un nemico comune. Il
pensiero videocentrico, riduzionista, tecnopatico, economico-totalitario. Tutti
pensieri che arretrano davanti alla complessità e alla contraddizione,
pensieri della miseria e non della varietà, della ripetizione e non della
scoperta, della cancellazione della storia e della memoria culturale e non
pensieri della profondità. Pensieri che portano all’analfabetismo
emotivo, alla non differenza tra le emozioni. E tra tutti i pensieri
riduzionisti il più di merda — per usare un termine che
è più di Rabelais che di Kant — ecco il pensiero
videocentrico. Vale a dire la soluzione finale del pensiero, l’hegelismo del
peggio, il pensiero che ha nella televisione e nei giornali maggiordomi che ne
dipartono il solo criterio di verità e di importanza. Il pensiero che
consegna a cento volti nei vari canali la dimostrazione e spiegazione del
mondo.
Non più: penso, dunque sono. Pensano, dunque sono.
In questo pensiero il vero comico e il filosofico sono accettati solo se si
riducono a una loro caricatura, o confinati in piccole zone di accesso notturno,
in piccoli ghetti separati dal grande pensiero centrale.
Cosa abbia prodotto questo nella cultura e nella società italiana per
alcuni, spesso ipocriti, è un piccolo turbamento paesaggistico, per altri
un accrescimento. Per me la distruzione dell’autonomia culturale, del senso
dell’humour, del desiderio di profondità e della filosofia personale di
ognuno. Chi resiste lo fa solo opponendosi e separandosi, per quanto può,
chi non resiste è per me totalmente complice.
Mi viene in mente un episodio. C’è un aggettivo fetente che distingue il
pensiero videocentrico ed è «carino». Carino vuole dire
consumabile, che si può capire, che non comporta l’obbligo di confrontare
o approfondire. La cosa peggiore che si possa dire di un libro o di un film
è carino. Non lo sottopongo né a critica né lo iscrivo
nella traccia delle cose da ricordare: «carino».
Recentemente ho sentito una signora dire: «Ho letto Schopenhauer
perché ne avevano parlato in televisione. È carino». Ho
immaginato Schopenhauer svellere la lapide e darla sulla testa della signora.
«Carino» voleva dire che non era andata oltre pagina due o che si
vergognava a dire che non aveva capito nulla. È meglio dire che un libro
è orrendo, malscritto, velleitario, piuttosto che carino. Carini sono
certi comici, niente di male, ma a me piacciono i comici indescrivibili
— Totò non era carino, era brutto e bellissimo insieme. E
sicuramente c’è da parte di alcuni filosofi la tendenza a diventare
carini. Che non vuole dire semplici attraverso un cammino guidato dalla sintesi
filosofica, ma semplificati perdendo per strada i pezzi fino a passare
attraverso lo schermo, semplici in quanto mutili, ridotti, mancanti.
La filosofia perde in complessità e diventa una specie di guida
quotidiana alle azioni, di maieutica del buonsenso, un sofismo da sala da
tè, ma nega il suo aleph. Si dice: ma così facendo rendiamo
la filosofia accessibile. È lo stesso discorso che fanno certi scrittori
che dicono di andare verso i gusti del pubblico. Non si può entrare nel
mondo della filosofia a forza di citazioni, bisogna leggere qualcosa, non si
può spiegare Platone senza invogliare a leggere qualcosa di Platone. E
non sempre la filosofia dà soluzioni, ma dà dubbi, precipizi,
baratri, contraddizioni, il suo mondo è quello sconfinato della
complessità fertile, del labirinto in cui non si ha paura di perdersi.
Non si fa filosofia col telecomando, cambio canale perché quello non mi
interessa e poi spengo.
Ci sono filosofi che riescono a spiegarsi senza rinunciare alla
complessità e che non tolgono al pensiero filosofico la sua tensione e la
sua emergenza. I miei preferiti, da profano: Foucault, Bachelard,
Jankélévitch.
Così per i comici. Che rinunciano alla complessità del comico,
alla sorpresa, per la ripetitività, per il tormentone, per trasformarsi in
accademia. Oppure anche ad essi viene chiesto di essere maestri di vita, e allora
delegano la satira, che per natura è imprecisa, a criterio di
interpretazione del mondo, quando la satira è per definizione settaria,
sommaria, dilatata. Il comico non pretende di dare definizioni, ma di mettere in
crisi le definizioni false, e di aprire un ulteriorità, una sporgenza per
lasciar trovare alla fine una nuova verità. Non per niente la saggezza
dei vecchi si nutre di una gaia filosofia oscura, che confina con la bizzarria,
che si esprime per paradossi.
E ci sono comici che riescono a farsi mondo senza rinunciare all’infinita
varietà del comico, dell’ironico, della sfumatura, del Witz, che
sanno suonare l’orchestra del comico e non un solo strumento.
Ecco, questo termine, &laquO;orchestra», è importante. La mia idea
del pensiero filosofico è questa, di un pensiero orchestrale, che sa
suonare la riflessione profonda e l’osservazione quotidiana, il lento della
metafisica e il crescendo della polemica, la massima astrazione e il dato
sociale, che si nutre di infiniti pensieri, esperienze. Possiede ancora il
pensiero filosofico questa ricchezza, questa capacità di immensa
astrazione e di riuscire a farsi mondo, la grande o piccola saggezza che si
traduce in comunicazione, in maieutica, in spiegazione? È lo stesso
problema del comico. Sono destinati a diventare pensieri ornativi, elitari, o
costretti a mimare il videocentrismo, così che sotto la parola
divertimento si nasconda la parola complicità all’esistente, e sotto la
parola divulgazione non si nasconda invece la parola immiserimento e truffa?
Aumenterà la solitudine dell’ironista, quella già descritta tanti
anni da Kierkegaard nel suo splendido saggio, con parole che potrebbero essere
state scritte oggi? Oppure filosofia e comicosofia sono ancora pensieri opposti
alla miseria videocentrica, pensieri che possono ad esempio nutrire la politica?
O devono solo esserne lo sfondo elegante?
Da come i padroni del videocentrismo cercano di corrompere, di blandire e anche
si arrabbiano e si scompongono alla disobbedienza, dal loro tentativo continuo
di comprare l’anima dei filosofi e le risate del comico dico: sì, loro
hanno paura. È un buon segno. Forse la mia è un’illusione. Ma per
comici e filosofi l’illusione non è trucco o effetto speciale, ma uno
spazio da percorrere e capire. Grazie.