Si - disse il vecchio contadino - il 1978 fu l'anno della caccia al pittore naïf. In…
Il bambino col pallone (I parte)
Egli fu a suo tempo uno dei padroni della città, non riempita da
cemento e macchine, non ipnotizzata dalla televisione.
Piazze, strade, giardini, portoni di chiesa risuonavano del suo rumore,
il secco schiaffo del pallone di cuoio o il morbido bacio del pallone di
plastica, che insieme rubarono migliaia di ore di sonno ai lavoratori.
Nei pomeriggi di primavera o nelle sere di estate, chi non ha mai avuto
il tetto della macchina percosso da una pallonata, o una vecchia nonna
dribblata e lasciata dolorante al suolo, o un vetro rotto, o un’aiuola
devastata, chi non ha visto sul cancello o sul portone della sua casa
l’orrendo marchio rotondo di un pallone bagnato?
Chi non ha conosciuto, insomma, il bambino col pallone, chi non lo ha visto
percorrere la città, da solo o in branco, con cigolante rumore
di mandria in scarpette da tennis, mentre avanzava con la fierezza
di un conquistatore, facendo rimbalzare il pallone sulle vetrine
e sulle macchine, scartando le signore eleganti, facendo passare la palla
tra le gambe di signori austeri, per poi raggiungere la sua meta:
il campo da gioco, il giardino, la piazza, la strada, il cortile
ove consumare il suo rito.
Ahimè, i bambini col pallone sono una razza quasi estinta.
Se dimostrano propensione al calcio, vengono avviati non già in strada
o in parrocchia, ma nelle giovanili della squadra cittadina, e a quattordici
anni hanno già la Porsche.
I campi da gioco, si sono ristretti: non è raro incontrare gli ultimi
esemplari di questa razza giocare negli ascensori due contro due, o su piccoli
terrazzi pensili da dove il pallone precipita in strada fra urla di orrore,
o riunirsi in venti a giocare una specie di calcio carambola in un garagino
o giocare da soli, contro il muro, ripetendo a voce alta una delirante
telecronaca.
Oppure tutt’al più giocare in qualche giardino pubblico sotto l’occhio
vigile di un vigile che impedisce il turpiloquio, gli atti osceni,
le pallonate nei coglioni, tutto ciò insomma che rende bella la vita
di un bambino con pallone.
In qualche paesino, in qualche remota contrada, ancora li possiamo vedere,
ruspanti, schiantare le porte delle parrocchie e falciare coi piedi l’erba
alta due metri in prati intonsi.
Oggi, in città, essi sono sempre più tristi e rari, i campi
sempre più piccoli, e Mazinga sempre più grande.
Ma c’era un tempo che…
Epopea dei bambino con pallone: il campo da gioco
Campo da gioco poteva essere qualsiasi spazio superiore al metro quadrato.
Si andava dal giardinetto pieno di fiori, alla strada, al vicolo, al vero prato.
Il più frequentato era il giardinetto scosceso, con aiuole di oleandri
e petunie, grossi sassi insidiosi, buche e salitine, dove potevano giocare
dai 2 ai 40 elementi.
Molto spesso in questo campo, esattamente in mezzo, c’era un grosso
albero-centromediano, contro cui schiantarsi.
Oppure si poteva avere l’ebbrezza di contendersi un pallone in un aiuola
di petunie, zappando tutto intorno petali e zolle in una colorata eruzione.
Si veniva fermati dal terzino avversario ma molto più spesso da uno
scivolone sopra una lumaca, o una merda di cane, o si derapava sulla ghiaia
con orribile rumore. Quasi tutti questi giardinetti avevano, come caratteristica
comune, il fondo di ghiaino, cioè di piccoli sassolini appuntiti.
Questo portava tre vantaggi: uno, era assolutamente da escludere che il pallone
rimbalzasse in qualche modo normale, o previsto da una legge fisica: appena
toccava terra rimbalzava in modo autonomo, di striscio, o altissimo, o si
interrava: questo rendeva il gioco vivace e imprevedibile.
Due: era consentito, nel tirare in porta, sparare prima la famosa
“zappata”, cioè un calcio nella terra che bombardava il
portiere di due chili di ghiaino in faccia e negli occhi, e poi batterlo con
un tiro preciso.
I più bravi tiravano anche zolle e sassi di un certo peso.
Narrasi di un tale che segnò un rigore dopo aver accecato il portiere
avversario con una talpa in mezzo agli occhi: ma qua parliamo di fuoriclasse.
Terzo vantaggio: cadendo sul ghiaino, non ci si rompevano le gambe:
ci si produceva la famosa raspata, cioè una lunga scarnificazione
della gamba, o del gomito, dal caratteristico aspetto puntiforme.
I giocatori da giardinetto si riconoscevano appunto dalle “crostate”,
cioè i crostoni di quattro rape rispettivamente sui gomiti
e sulle ginocchia, con cicatrici simili a crateri lunari.
Veniva chiamato pratone uno spazio terroso, quasi sempre alla periferia della
città, di dimensioni notevoli.
Malgrado il nome, pratone, questo campo non aveva erba: solo un minuscolo
ciuffo sulla zona laterale destra che però veniva coperto con un
bicchiere per preservarlo. Il fondo era un misto di terra, barattoli, amianto,
funghi, stracci bagnati, preservativi, sassi, cocci, mattoni, insomma, tutto
quello che poteva impedire a un terreno di essere liscio.
Il pratone era inoltre in forte pendenza: per questo a metà partita
bisognava cambiare campo. Perché non era raro il caso di pratoni come
quello della Beverara in cui giocare in discesa era un grande vantaggio.
Una delle porte era infatti situata a quota trecentoventi metri: si respirava
una buona aria di collina. L’altra era trenta sotto il livello del mare,
sempre coperta dalla nebbia. Chi giocava in discesa aveva un solo problema:
toccare la palla, che di sua spontanea volontà prendeva la ruzzola
e piombava nel campo avversario a velocità impressionanti.
Chi giocava in salita aveva come problema quello di riuscire almeno a salire
fino alla porta avversaria e vedere dov’era per regolarsi.
Un altro tipo di pratone era il pratone cosiddetto fetente, vicino a una
discarica della spazzatura. Qua si giocava in una melassa di oggetti vivi
e morti, e il problema principale era di colpire la palla e non i topi.
I topi erano infatti numerosi e a volte si riunivano in squadre da undici
e ci sfidavano. Il più bravo di loro, Attila, un bel topo grigio
alto sul metro e quaranta, fece un provino per la Juventus ma fu scartato
perché era facile fermarlo pestandogli la coda.
Un altro pratone famoso ai nostri tempi era quello sul Reno, detto la palude.
Nove mesi all’anno questo campo era un mare di fango nerastro. Si giocava
scivolando per metri e metri e si ritornava a casa argillati come statue greche.
Poi, improvvisamente, in luglio il campo si solidificava acquistando una durezza
incredibile, di diamante. Bastava cadere una volta sola su questo terreno e la
frattura era assicurata. Perciò era molto difficile trovare qualcuno
che facesse il portiere e si tuffasse. Tentava qualche coraggioso con un
copertone intorno alla vita, o imbottito di maglioni come una guida tibetana;
provavamo anche a spargere segatura e trucioli e sabbia vicino alla porta,
ma tutto invano. Alla prima parata, si sentiva un crac d’ossa e bisognava
cambiare portiere: fino a venti per partita. Una volta credemmo di risolvere
il problema portando sui pratone due materassi. I portieri si addormentarono
e la partita finì ventidue pari. Trovammo allora un pratone molto bello
vicino a un cimitero. A ogni pallonata emergeva dal suolo un teschio,
un reperto osseo, o qualcosa di simile. Una sera, sull’uno a uno, l’arbitro
dovette sospendere la partita perché, dopo una mischia in area, era
venuto alla luce lo scheletro di un mammut di duecento tonnellate. Il pratone
fu dichiarato zona archeologica.
Ne trovammo subito uno nuovo esattamente al centro di uno snodo dell’autostrada.
Era molto bello, ma tutte le volte che la palla usciva dal campo, bisognava
riprenderla lanciandosi tra macchine e camion ai duecento all’ora. In due mesi
perdemmo nove giocatori e causammo circa duecento incidenti, anche se eravamo
molto popolari tra i camionisti, alcuni dei quali si fermavano per vederci
giocare causando tamponamenti di otto-nove chilometri.
Espulsi anche da questo pratone, ne trovammo uno parrocchiale. Però il
parroco pretendeva che giocassimo tutti vestiti da cresima, che dicessimo le
preghiere prima di ogni tempo, che non bestemmiassimo e che, a ogni gol,
ringraziassimo ad alta voce il cardinale, una cui effigie era montata sulla
traversa. Tutto andò bene fino al settimo minuto, quando tale Marconcini,
nativo di Rioveggio, di anni dieci, prese il palo, disse novanta bestemmie in
apnea senza tirare il fiato, sputò per terra, e disse: “Almeno
avessi tirato giù quella faccia di gufo del cardinale”.
Fummo cacciati: ma trovammo un ottimo pratone vicino a una industria: si giocava
benissimo: solo ogni tanto passava una nube di gas e ci copriva completamente di
giallo, cominciavamo a vomitare e svenivamo. Dovevamo fare dieci tempi di nove
minuti per andare più in là a respirare. Smettemmo quando notammo
che al portiere che giocava più vicino all’industria era cresciuta una
mano supplementare, e lui non lo voleva dire perché parava meglio.
Trovammo un campo comunale. Ma il custode non ci lasciò entrare.
Chiedemmo perché. Non lo so, disse il custode, ma non è mai
esistito un custode di campo comunale che dia a qualcuno il permesso di giocare.
Compito del custode è di respingere, infastidito e incazzato, ogni
richiesta in tal senso, e dire che non dipende da lui. Nessun custode sa
perché, ma è sempre stato così.
Cambiammo ancora pratone: finché una sera, molti chilometri a est, ne
trovammo uno molto bello, con erba soffice, pali robusti, alberi tutto intorno
che impedivano al pallone di uscire. Un vero sogno. Ci apprestavamo a entrare,
ma due robusti bambinoni ce lo impedirono. No, dissero, in fila con gli altri.
Ci fecero girare dall’altra parte. Fin dove lo sguardo arrivava, nella campagna,
c’era una fila ininterrotta di bambini, chilometri e chilometri di magliette
rossoblù e verdi e gialle e bianconere che aspettavano il loro turno per
usufruire del pratone. C’erano bimbi di Siena, di Campobasso, anche di Sassari.
Mi ricordo anche che c’erano undici bambini eschimesi con magliette di pelo.
Tornammo tristemente in città. Giocammo nel cortile di Bravi, il
meccanico, undici contro undici. Una porta era la porta del garage e l’altra era
così composta: un palo la colonnina per gonfiare le gomme e l’altro il
nonno di Bravi che dormiva su una sedia. Finì tre a due per gli altri,
ma noi prendemmo un palo e due nonni. Meritavamo almeno il pareggio.
La strada
Questa era il campo principe, ove si formavano i veri bambini col pallone, i
più coraggiosi, abili e astuti. Solo con queste doti si poteva infatti
sopravvivere ai grandi pericoli di questo campo di gioco, e
precisamente:
Il signore col cappello e il bastone
Era un signore di mezza età, con cappello e bastone, che camminava
alla velocità di quattrocento metri all’ora e che aveva una irresistibile
tendenza a trovarsi sulla traiettoria dei palloni più forti e tesi.
Bambini gracili che mai erano riusciti a tirare un pallone più in
là di una ventina di metri, alla vista di questo signore sentivano una
colata di energia vulcanica scendere dalle gambe ai piedi, e al volo sparavano
fucilate di cinquanta metri che colpivano in faccia il signore in questione.
Il quale, ripresosi, protestava con la solita frase “andate a giocare da
un’altra parte”, roteava il bastone, minacciava di chiamare il vigile,
finché non la spuntava.
Voltava l’angolo brontolando e veniva raggiunto in faccia da un nuovo pallone
proiettile a centoventi chilometri all’ora. L’ultima cosa che vedeva prima di
svenire era la faccia di un bimbo che gli diceva “è inutile che
andiamo a giocare da un’altra parte se anche lei poi viene da quella
parte”.
Il lupo mangiapalloni
Questo essere spaventoso, che ogni bambino calciatore ha temuto nelle favole
e nelle realtà, era all’aspetto esterno un lupacchiotto assolutamente
innocuo, dall’aria giocosa e simpatica.
La trasformazione avveniva quando questo lupo sentiva nell’aria odore di gomma
di pallone: in questo caso triplicava statura e ferocia, balzava tra i
giocatori, e malgrado i calci e i pugni, con un solo colpo dell’apposito dentone
sgonfiava il pallone, tornando poi scodinzolando dal suo padrone che sorridendo
diceva “vuol solo giocare, è un cucciolo”.
Bugia! Sandokan, il più temibile lupo mangiapalloni del mio rione, aveva
tredici anni e girava ancora con un fiocchetto azzurro al collo per poter
passare per cucciolo e placare la sua inestinguibile sete di gomma. Si calcola
che nella sua carriera abbia sgonfiato seimila palloni di plastica e
quattrocento di cuoio. Morì saltando da un tetto, cercando di mordere al
volo il pallone aerostatico della Goodyear. Ai suoi funerali, vedemmo piangere
la cartolaia, quella che vendeva i palloni (ci dissero che erano
amanti).
Il bambino piedestorto
Orribile pericolo per ogni gruppo di bambini calciatori, anche il bambino
piedestorto non era riconoscibile a un esame esteriore. Era un bambino normale,
magari un po’ goffo, spesso occhialuto, con scarpe a punta inadatte al
gioco.
La terribile maledizione del bambino piedestorto si rivelava non appena egli
calciava il suo primo pallone. In ogni caso, quale che fosse la sua tecnica, la
sua concentrazione, la sua posizione in campo, il pallone calciato da questo
individuo finiva sempre:
A) dentro un giardino
B) sopra un tetto
C) conficcato su una rete di recinzione nell’unico spunzone rinvenibile in
cinquanta metri di fil di ferro.
Nascere bambino piedestorto era la maledizione più terribile che potesse toccare a un bambino che voleva diventare calciatore. La voce della sua malattia si spargeva. Dopo aver sgonfiato palloni in tutte le strade e i rioni della città, veniva riconosciuto. A volte gli veniva dipinta la gamba di giallo, come marchio di infamia. Vagava ore e ore per strade periferiche, finché non trovava, in un cortiletto, due bimbe di tre anni che giocavano rotolandosi con le mani una palletta di gomma colorata. Si inseriva, diceva “posso fare un tiro” e la palletta schizzava su uno spigolo, rimbalzava su una grondaia, e finiva inservibile sul tetto. Le due bambine piangevano disperate, il piedestorto fuggiva pieno di vergogna.