laRepubblica 4 aprile 2020 Ogni solitudine contiene Tutte le solitudini passate Il signor Eremio viveva…
La leggenda dell’ultrà beneducato
Ricomincia il campionato, e dobbiamo riconoscere che il calcio italiano ha risolto molti problemi meglio della politica. Primo, il lavoro. In almeno cinque o sei squadre, ci saranno calciatori pagati miliardi per non giocare e restare in panchina. È il più alto sussidio di disoccupazione che il mondo conosca. Secondo, la droga. Per abbassare il numero dei drogati, basta ammorbidire i test che segnalano il doping. Semplice e geniale. Terzo, l’immigrazione. Sono stati accolti giocatori stranieri, di ogni colore e nazionalità e a nessuno è stato negato il permesso di soggiorno. Quattro, la giustizia. Il sorteggio degli arbitri dovrebbe eliminare ogni sospetto, ma presto qualcuno scriverà che il bimbo che estrae i numeri dall’urna è stato visto arrivare guidando una Fiat Croma. Cinque, le tasse. Cragnotti, presidente della Lazio e zar di tutte le scamorze, compra Vieri e alza il prezzo del latte. Niente inutili conteggi e moduli complicati, ci si sveglia la mattina e si paga. Ma c’è ancora spazio per lo sport eroico e puro in questo carrozzone miliardario? Sì, c’è: oggi vi raccontiamo la leggenda dell’ultrà buono.
C’era una volta un giovane ultrà, sapeva a memoria tutte le formazioni della sua squadra nel dopoguerra, nonché i nomi dei giocatori, la data di nascita, la marca d’auto e il nome dell’attrice preferita. Non perdeva mai una partita e sventolava gagliardamente le bandiere dal primo all’ultimo minuto. Ma aveva un difetto: era buono. Quando si andava in trasferta, mentre i suoi amici facevano le corne alle auto avversarie e si scazzottavano per allenarsi, lui leggeva tranquillo il giornale sportivo.
Gli altri avevano scritto sulla maglietta “Born to kill” e lui “Salviamo le rondini”. Se incontrava i tifosi della squadra avversaria diceva sportivamente “Ehi ragazzi, speriamo che si veda del bel gioco oggi”. Quando si entrava allo stadio scortati dai carabinieri, mentre gli altri cantavano “Fossa ultrà sangue e rovina, a morte la canaglia juventina”, lui ascoltava De André al walkman. Perciò le buscava da tutti.
Dagli avversari, perché quando la sua squadra vinceva si avvicinava dicendo “però obiettivamente meritavate il pareggio”, ed eran botte. Dai carabinieri, perché quando scoppiavano incidenti, non scappava, ma restava lì a spiegare: “Scusate agenti, ma l’aggressività dei miei amici è ampiamente motivata, in quanto se consideriamo l’arbitraggio del secondo tempo…”. Ed erano manganellate. Dai compagni, perché sul pullman di ritorno, dopo una sconfitta per quattro a zero, lui si alzava in piedi e diceva “Ragazzi basta coi musi lunghi, facciamo una serena disamina della partita senza pregiudizi di parte”. Ed erano scarpate in faccia.
Così l’ultrà buono, pesto e depresso, pensò di diventare cattivo. Andò a lezione nel club Fossa dei Piranhas, il cui capo era Squalo, famoso per aver picchiato un intero convento di domenicani scambiandoli per arbitri. L’ultrà buono studiò le materie fondamentali: Slogan offendente, Provocazione comparata, Kendo con la bandiera, Lancio della lattina, Insulti in dialetti locali, Vita privata di calciatori e arbitri. Così, zavorrato di sampietrini e messo a conoscenza dei difetti genetici dell’ etnia avversaria, partì per la prima trasferta di campionato. Appena sceso dal pullman davanti allo stadio, fu il primo ad affrontare un trio di tifosi avversari, riconoscibili dalla maglia biancorossa, e li apostrofò: “O il mio sangue o il vostro”. I tre, che non erano tifosi, ma infermieri dell’Avis, lo portarono entusiasti al pulmino donatori, gli cavarono quattro litri e gli diedero un diploma.
Entrato nello stadio, prese posto vicino alla rete che separava gli ospiti dai padroni di casa. Al primo fallo di gioco balzò contro la rete insultando gli avversari e gridando al più grosso di tutti, tale Kocis, “ci vediamo fuori, bastardo!”. Purtroppo, quello era l’unico punto dello stadio dove c’era un buco nella rete. Fu risucchiato dentro al settore nemico e pestato per tutto il primo tempo. Ferito ma impavido, nel secondo tempo tirò una lattina centrando un poliziotto e, di rimbalzo, il suo cane lupo. Al pareggio della sua squadra, coniò uno slogan sulle sinergie sessuali della moglie dell’arbitro che atterrì metà dei suoi compagni e fu applaudito dall’altra metà. Appena fuori dallo stadio, bruciò festosamente due cassonetti dell’immondizia e affrontò la polizia da solo. L’agente colpito dalla lattina lo riconobbe e lo manganellò spianandolo come un petto di pollo. Il cane lupo lo bagnò per farlo riprendere, ma non di acqua.
Quando il giovane si rialzò, incrociò subito Kocis, che lo picchiò prima “a zona”, con pugni in varie parti del corpo, e poi “a uomo” con un calcio nelle palle. Si rialzò nuovamente barcollando. Davanti a lui c’erano una mamma e un bambino vestiti con i colori della squadra avversaria.
– Mamma è ferito, posso finirlo? – disse il piccolo. – Sì, ma attento a non sporcarti di sangue – disse la mamma.
Il piccolo sfoderò una spada Guerre stellari frustandolo per mezz’ora, e la madre aggiunse una tacchettata in un occhio. Ma il tifoso sorrise. Era diventato un vero ultrà.
Per sua sfortuna, quel giorno allo stadio, era in azione una telecamera-spia. La sera alla Domenica Sportiva andò in onda una puntata speciale sulla violenza calcistica e le sue gesta, riproposte in decine di ralenti, occuparono metà della trasmissione. Sua madre ebbe un collasso, il padre lo diseredò, la ragazza lo lasciò, fu identificato e gli fu interdetta l’entrata allo stadio per cinque anni. Disperato, vagò tutta notte. All’alba, nei pressi di casa, venne affiancato da una limousine nera. Si buttò a terra, temendo altre botte. Ma dalla limousine uscì l’inconfodibile figura del presidente della sua squadra. Questi gli prese la testa, lo carezzò con le lacrime agli occhi e rivolto agli occupanti della macchina disse:
– Vedete, questo ragazzo ben merita il nome di eroe! –
L’ultrà buono si commosse e decise di cambiar vita. Proprio questa settimana scadrà la squalifica e potrà tornare allo stadio. In questi cinque anni è maturato, si è sposato, ha trovato lavoro, veste elegantemente e non andrà in curva, ma nella tribuna centrale. Non avrà sciarpe né bandiere, solo un piccolo distintivo all’occhiello, e nella fondina sotto l’ascella una pistola. Non si sa mai, con tutti questi ultrà esagitati in giro.