“Ho venduto a diecimila euro le mie vecchie catene da neve, quindi parteciperò alla sottoscrizione”
La riga mancante
Apro l’Unità, ieri mattina e leggo: «Muore la costituzione, dittatura del premier».
Sento un leggero disagio, che inizialmente attribuisco alla parola «premier» e all’orribile immagine della sua tricointermittenza, ma subito dopo capisco che il motivo è un altro.
Al titolo manca qualcosa, precisamente una seconda riga.
Questo mi viene confermato da una mia amica francese che un po’ sadicamente dice: ma insomma, costituzione manomessa e dittatura del premier e siete ancora qui a bere il cappuccino?
Non do la colpa di questa riga mancante ai giornalisti de l’Unità, essendo spesso più settario e confuso di loro.
Il mio disagio nasce perché in quella riga mancante, c’è tutto ciò che mi fa imbufalire della sinistra istituzionale italiana, a pochi giorni dal voto.
Immaginiamo che i casi siano due.
O è vero, come talvolta appare nei discorsi dei dirigenti della sinistra, anche i più pacati, che stiamo vivendo un vero e proprio regime, retto da un premier seminatore di odio, bugiardo e plurinquisito, affiancato a un lato dal suo avvocato condannato per corruzione, e dall’altro dal suo palafreniere condannato per mafia. Un premieruzzo vittimista che si fa ricattare da una banda di finti dimissionari e veri razzisti, a parole integerrimi padani, in realtà matricianari democristiani affamati di comando. Che si appoggia alla modernissima nuova destra Fini-Ikea, poltronara e divanara, molto più interessata a spartirsi la Rai o spiarsi via computer che alla sua base sociale. Un regime che ha violato ogni regola democratica, che ha sfornato leggi ad personam, che ha instaurato una dittatura del maggioritario (parlamentare, non civile), che teme e disprezza la costituzione, l’indipendenza della magistratura, i diritti dei lavoratori e dei deboli. Un regime sotto cui la camorra e la mafia vivono un momento d’oro e si sono perfettamente saldate con la grande economia, passando dalla gestione della droga alle autostrade e alle banche.
Un regime in cui l’informazione è tornata a livelli di censura da Minculpop e in cui la Rai affastella mediocrità e servilismo, in cui la cultura è una minaccia, in cui si avvilisce e si svende il patrimonio artistico e naturale.
Un regime che ha impoverito l’economia italiana a punto tale che ormai anche il premieruzzo è costretto a ammetterlo, un regime che contro la volontà popolare è sceso in guerra, e che continua questa guerra in totale servilismo dell’America, al punto di non sapere neanche difendere la memoria di una suo funzionario fucilato, e questo termine vale anche in caso di incidente, perché quando affermi di aver portato la pace e l’ordine in un paese, hai anche la responsabilità di mostrarlo.
Oppure dobbiamo dare retta algli ondivaghi pentimenti e dietro-front e correzioni degli stessi dirigenti della sinistra. Non si tratta di regime, ma di prove di regime, di coitus interruptus di regime, di Ceasescu con seltz. Tutto quanto detto nel primo caso era frutto di trance agonistica, non vale più e viene automaticamente trasferito in bocca agli estremisti e alla sinistra che vuole perdere. Siamo di fronte a un premier che ha lievi problemi non solo con i suoi trapianti, ma anche con la magistratura, un uomo distratto che non sa scegliere i suoi amici, che è spalleggiato da una Lega i cui toni sono spesso eccessivi e da una destra variegata in cui possiamo scegliere se dare le nostre simpatie a Storace o alla Mussolini. E’ vero, ogni tanto alla camera si sfiora la rissa ma poi ci si spiega, e Casini ci dà le pastiglie Valda se abbiamo urlato troppo, e male che vada abbandoniamo l’aula. Sulla Costituzione speriamo che Ciampi e la corte Costituzionale ci possano mettere una toppa, in quanto alla mafia Pomicino e Cuffaro hanno giurato che hanno perso il vizio, comunque la mafia è sempre stata legata al potere e forse come dice Castelli, dobbiamo abituarci.
Non esageriamo sull’informazione, in fondo ogni giorno in fondo sono garantiti un’intervistina a Fassino, una poltroncina a Rutelli, uno strapuntino a Pecoraro Scanio, un parere calcistico a D’Alema, cinque secondi a Di Pietro, e una fettina di Tigitrè. Non si vede mai Bocca ma abbiamo tutto lo Zecchi che vogliamo. La cultura serve soprattutto a riempire le piazze durante i concertoni, gli Uffizi li andremo a vedere a Las Vegas, tanto sempre quadri restano. In quanto al parco nazionale d’Abruzzo, compagni, bisogna essere realisti, gli orsi non votano. Per finire, quando si parla di economia siamo tutti sulla stessa barca, cooperatori o speculatori con diversi ideali ma uguali esigenze di bilancio, bisogna seguire la linea di Montezemolo e non quella degli operai rivendicativi. Sulla guerra Bush forse è stato troppo intransigente ma un po’ di intransigenza ogni tanto non guasta, vedi Serbia, e in fondo possiamo anche restare in Iraq, basta che non ci allontaniamo troppo dalla caserma, e Calipari in fondo se l’è cercata, doveva circolare con una cinquecento tricolore, un damigiana di vino sul tetto e la scritta: siamo paisà.
C’è una terza via tra queste visioni, tra dissociazione e antagonismo, tra apocalisse e farsa, tra regime e guasto alla democrazia? Forse sì, comunque non sta in mezzo, ma è decisamente orientata verso una delle due parti e richiede comportamenti non ambigui. Oppure la via c’era qualche tempo fa, ma è stata offuscata e distrutta da un premier fallimentare che, lo ripeto ancora una volta, non è una vittima, ma il primo seminatore di odio e divisione in questo paese. E quindi, nell’imminenza del voto (non perché sia un momento sacro, ma perché è un momento in cui a volte ti ascoltano, o fingono di farlo) sarebbe dovere della sinistra ufficiale smetterla di ondeggiare ed essere chiara e responsabile di ciò che dice.
Quindi la riga che manca (e ripeto, non la devono scrivere i giornalisti) potrebbe essere una di queste.
Prima riga:
«Muore la costituzione, dittatura del premier».
Seconda riga:
«Ma tanto lo sapevamo».
Oppure:
«Appello a Ciampi».
Oppure:
«Vibrante protesta in aula».
Oppure:
«Intervista con Fassino».
Oppure:
«Comunque resteremo nella Nato».
Oppure:
«Ma il vero problema restano gli arbitraggi».
Oppure:
«Referendum subito, ma prima votateci».
Oppure:
«Italia in piazza, sciopero generale».
Oppure:
«Italia in piazza per una settimana, sciopero generale a oltranza finché non sarà ripristinata la legalità democratica».
Oppure:
«Emilia, Toscana e Umbria pronte alla secessione».
Oppure:
«Alle armi».
Non dico qual è la mia riga preferita, sicuramente ne esistono altre più divertenti o più sensate. Ma nei giorni che mancano alle elezioni i dirigenti della sinistra potrebbero spiegarci quale di queste righe, o quale altra, completa la prima, e se la prima resta valida o va corretta. Dovrebbero spiegare chiaramente quali fatti seguiranno all’alluvione di manifesti, slogan e parole con cui ci chiedono il voto. Fatti nuovi, direi, che vadano al di là della presenza in parlamento, luogo che disprezza e non riflette più la complessità politica del paese. Può tornare a rappresentarla? Speriamo. Ma per il momento, il potere non è più lo stesso, l’opposizione non può più essere la stessa. Impegnarsi su questo aiuterebbe a decidere se e come votare. A avere un briciolo di speranza sull’importanza e la serietà di questo voto, a credere ancora che il desiderio di democrazia e l’impegno caparbio di tanti della sinistra (e di qualcuno dall’altra parte) non venga, per l’ennesima volta dissipato e tradito. Certe parole forti legano a forti responsabilità, a sfide, a coraggio. Dateci un titolo di due righe. Se no, mettetevi il fila da Vespa, a ridire tutto e il contrario di tutto. E non spiegate soltanto cosa succederà se prendiamo (o prendete) il cinquantun per cento, ma cosa succederà se prendiamo il quarantanove per cento: come saremo rispettati e ascoltati, e come ci si batterà per garantirlo. Non so quanto mi interessa votare in un paese dove centomila voti, o un milione di voti in più, cancellano chi perde, qualunque sia l’esito. La dignità della sfida elettorale e della democrazia, se ancora esiste qualcosa che le assomigli, è questa.