skip to Main Content

MA I BAMBINI OGGI NON RIDONO PIU’ – Repubblica.it

MA I BAMBINI OGGI NON RIDONO PIU’

“Maylight” è la prima edizione di un festival internazionale di fotografia promosso dal Comune di Bologna. Con il titolo di “Fanny & Darko. Il mestiere di crescere” si inaugurano oggi le mostre di una dozzina di fotografe e fotografi di fama internazionale: Howard Schatz, Sally Mann, Donna Ferrato, Lauren Greenfield, Mija Renstrom, Andrea Modica, Paolo Pellegrin, Jouko Lehtola, Claudine Loury, Marie-Paule Nègre e Chris Harrison. Pubblichiamo parte dell’ introduzione al catalogo (edito da Mazzotta Fotografia) di Stefano Benni. Nella fotografia, e questa mostra lo illustra, sopravvive un’ esigenza che altre forme d’ espressione riescono a eludere e mascherare con maggiore facilità, o cinismo. L’ esigenza di mantenere visibile e inquietante il paradosso che permette a ogni arte di oscillare tra il massimo di artificio e il massimo di verità (…). Alla fotografia si chiede di testimoniare la purezza di un attimo e nel contempo di farlo durare, conservando geologicamente, come una crepa o un fossile, ciò che la storia rapidissima degli eventi reali e artistici sembra trascinare a una velocità indifferente. Eppure la fotografia è anche l’ arte che ha ereditato dalla pittura il mistero del movimento, è l’ arte della finzione vertiginosa, del fotomontaggio e dello stravolgimento coloristico, l’ arte che ha santificato la moda e ha accompagnato la nascita della pubblicità moderna. Ma alla fotografia lo spettatore attento chiede che tutto questo sia visibile, mentre alla televisione o al cinema, in nome di una mistica tecnologica, si perdona ormai qualsiasi trucco o contaminazione. La pittura ha il diritto-dovere di andare oltre le forme. La scrittura come la parola è per natura infedele, è organo-ostacolo della realtà, e la sua verità appare solo decifrandola con passione. Alla fotografia invece si chiede di non mentire, di dire ogni volta quando finge e quando brutalmente mostra. Guardando questa rassegna si pone subito il confronto e l’ infinita distanza, con l’ iconografia del “bambino ridens” della pubblicità e con la più severa ma altrettanto falsa semplificazione del santino da beneficenza. I bambini attori del cinema sono sempre più buoni, o più irritantemente petulanti e onnipotenti che nella realtà. I bambini televisivi sono per lo più notizie, fotografie di delitti commessi da adulti, orribili bonsai di divi affermati, vocette telefoniche che adorano presentatori di quiz. I bambini della scrittura passano attraverso la lenta rifrazione di chi ha sull’ infanzia, propria o altrui, rimpianti, rimozioni, orrori. Sono bambini “separati” proprio come noi ci sentiamo separati dal bambino che eravamo, eppure la letteratura del Novecento ci consegna non pochi libri memorabili sull’ infanzia. Nella maggior parte dei casi, quindi il bambino artistico resta infante, cioè colui che non parla, se non per bocca di un adulto. Nella fotografia, che è un incontro preparato o inatteso, il bambino riesce spesso sorprendentemente ad avere voce. Parla, semplicemente, infrangendo una nostra bugia. La bugia che qualsiasi innocenza sia impossibile, nell’ era della complessità e che il bambino sia portato destinalmente a sopportare e illustrare la malvagità del mondo. Al bambino si chiede di mostrare ciò che agli adulti non viene più richiesto, ciò che avremmo potuto essere e non possiamo più essere. Lui solo è “responsabile”, “risponde” col dolore in un mondo adulto troppo ingovernabile per permettersi il lusso della responsabilità. In questo modo noi “grandi” possiamo continuare a essere ciò che siamo, con una punta di rimpianto e la buona pace del mercato delle armi e dei giocattoli. Ma il bambino non dice solo ciò che vogliamo fargli dire. La sfida di queste foto, non certo rassicuranti, è una continua, inspiegabile speranza. (…) Attraverso gli sguardi, il nascondersi, gli attimi stupendi di gioia animale, esce una verità che non possiamo rimandare con nessuna patinatura o slogan, o celebrazione museale. Se voi grandi siete rassegnati a perdere tutto, dicono queste foto, noi non lo siamo. Ci vorrà molto tempo, molte ingiustizie, molto cinismo per convincerci. Non occorre scattare foto nel terzo mondo o nei luoghi di guerra, o alle vittime della violenza quotidiana. In ogni foto scattata con sensibilità e verità il senso di questa domanda terribile è presente. La fotografia affronta questa contraddizione con un coraggio che spesso manca ad altri mezzi. Certamente, c’ è il rischio di un’ eugenetica a tempo, dell’ invenzione di un mondo lontano di piccoli purissimi alieni. Ma la fotografia è, come tutte le arti l’ incontro tra due immaginazioni: quella dell’ artista e quella di chi guarda. Davanti a una foto ci si può fermare, sostare, siamo noi che muoviamo l’ azione, che immaginiamo il tempo, il luogo, la storia. Nessuna voce di telegiornale, nessuna didascalia o spiegazione può sostituirsi alla nostra sensibilità. Possiamo decidere se provare quello che Pavese chiamava un lieve turbamento paesaggistico o un’ autentica emozione, un vago fastidio per qualcosa che crediamo di conoscere già, o una scoperta. Dobbiamo fare i conti con la nostra infanzia, l’ infanzia di chi ci è vicino, l’ infanzia del mondo. Perciò questa mostra dà l’ impressione di un’ ostinata vitalità; qualcosa che non ha niente a che fare col proliferare delle tecniche e dei gadget che hanno reso vertiginoso e affollato, ma prevedibile e ripetitivo, il mondo dell’ immaginario infantile. E neanche col godimento estetico del “brutto irrimediabile”, apocalisse in pantofole per chi sa benissimo che questo “brutto e irrimediabile” starà lontano da lui, fino alla prossima moda.
Stefano Benni

Back To Top