Dopo il successo della Guida di New York (Panorama 941), abbiamo rintracciato anche una Guida…
Scusate l’obiettività
È stato un periodo difficile, per i telegiornali, sorpresi da tutti questi scioperi che inspiegabilmente nascevano qua e là, in un paese dove tutti andiamo d’accordo, e c’è un governo tanto amato che Andreotti deve uscire con la scorta, o lo mangiano di coccole.
Abbiamo sentito un bel po’ di volte l’aggettivo «corporativo». Una volta che era andata in onda una semplice intervista a un lavoratore ospedaliere (e certo non uno dei più estremisti), subito dopo ci siamo sentiti avvertire da Italo Moretti che servizi come quello erano necessari per la completezza dell’informazione. È singolare che, quando c’è un servizio di questo tipo, si senta il bisogno di avvertire il telespettatore, come se lo choc dovesse essergli fatale. Perché non facciamo dire all’annunciatrice «andrà in onda ora il programma Storie di vita, dato l’alto numero di scene obiettive e dialoghi non censurati, nonché la violenta mancanza di interviste a ministri democristiani, se ne consiglia la visione ai soli spettatori adulti»?
Con il suo commento, ci sembra che Moretti abbia finito col dire «guardate, questo ospedaliere dice cose da pazzi, ma noi lo facciamo parlare lo stesso perché siamo democratici». Allora dovremmo fare apparire sullo schermo, tutte le volte che parla Andreotti, la scritta luminosa intermittente «non è vero niente». Così l’informazione è completa.
Proprio negli stessi giorni degli ospedalieri, i telegiornali ci informavano sul congresso della stampa di Pescara. Mentre gli altri lavoratori si azzuffavano e chiedevano scompostamente oro, gioielli e privilegi, i giornalisti, eterei, volando per i corridoi come palloncini, davano il buon esempio con propositi di austerità e sacrificio.
Sconfitta la lottizzazione, sconfitta l’ala monetarista, noi giornalisti siamo un fulgido esempio contro tutte le spinte corporative del paese. Si difende la mutua autonoma, l’Inpgi, ma si fa perché, come dice un documento, «è il baluardo della libertà di stampa» che può certo resistere a Rizzoli, ma non a un aerosol.
La retribuzione media, per giornalisti, che nel 1974 era di undici milioni e mezzo lordi è scesa nel 1977 a 15 milioni e 700.000 lire. Ma in questa statistica c’è una enorme sperequazione tra superdirettori, inviati, stampa ricca e i redattori dei piccoli giornali. Ci sono anche 366 disoccupati, circa il 10% della categoria, in paziente attesa che sia stato assunto l’ultimo nipote di ministro.
È una vita di sacrifici. Abbiamo dovuto mantenere il 70% di sconto sui treni e il 30% sugli aerei per tirare avanti. Con qualche buono-benzina dell’Eni, qualche mutuo agevolato, qualche automobile scontata, si arriva a fine mese. Se no, si può sempre concorrere a qualcuno delle centinaia di premi che ministeri generosi, ditte, enti turismo ed enti termali indicono per giornalisti, per il più bell’articolo sull’acqua pisciolina, la valle dei gelsi, il petrolio tipico, i mosaici parlanti e Guidarello Guidarelli.
Se anche così non si sopravvive, nei grandi giornali si può arrotondare il contratto nazionale con accordi aziendali, superminimi sostanziosi, indennità varie di riscaldamento, di trasferta, o la famosa indennità video della Tv, e, l’ultima arrivata, l’indennità di lettura. Se poi neanche sommando tutte queste cose con qualche corrispondenza, Tv privata o ufficio stampa, ce la facciamo, non ci resta che andare in pensione, così, cumulando alla pensione un lavorino a Tempo e uno da Rusconi, arriviamo a fine mese come fa Enrico Mattei, premio Saint Vincent di giornalismo. E anche così c’è chi non ce la fa proprio, come i corrispondenti esteri, ora travolti dal crollo del dollaro.
Segnaliamo il caso pietoso di Girolamo Modesti, gruppo Monti, che a Washington vive di hamburger con sessanta milioni all’anno. Speditegli subito cibo e medicine. Oppure Vittorio Orefice, che siccome la Rai gli passa uno stipendio da fame, deve prendere qualche lira da tutti i giornali italiani per passare le veline della Camera. È, una generosa gara di solidarietà per un collega in difficoltà. La Rai non parla di queste cose perché noi giornalisti siamo orgogliosi e fieri. Se notate con quanto accanimento il Tg uno dà contro agli ospedalieri, e i visi sono pallidi e indignati, e le notizie un po’ confuse, perdonateci: è la fame.