Era una bella giornata di primavera. Il nevischio mummificava le rondini e raffiche ai duecento…
È tornato il Mascellone
Nella festosa cornice mondana di Villa Wanda, per l’occasione tornata agli
antichi splendori, si è svolta la serata finale del “Mascellone
d’oro”, il premio che gli “Amici della Loggia” assegnano ogni
anno alla personalità italiana che più si è distinta
nel seguire le orme dell’indimenticabile mascella di Predappio. Il clima era
eccitato per il vento di guerra che finalmente agita l’imbelle palude
internazionale. Il padrone di casa Licio Gelli, per l’occasione in
lamé, commentava gli avvenimenti con alcuni dei più noti
armatori del mondo, tra cui spiccavano Vittorio Emanuele di Savoia, Gianni
Agnelli e gli amministratori di Selenia, Breda e Oto Melara. Consolavano la
Fincantieri disperata perché si trova sul gobbo otto navi da guerra
irachene da riciclare per la pesca allo sgombro. Intanto la mondanità
di regime assediava il ricco buffet ove spiccavano i krapfen quadrati di
Armani e la mortadella con bolli di Krizia.
Nel reparto intellettuali Mughini, Funari, Sgarbi, Gervaso e le sorelle
Carlucci commentavano l’ingiusta esclusione di Berlusconi dalla cinquina
finale. «Queste ingiustizie in Parlamento non succederebbero», ha
commentato severamente Ugo Intini. La Giuria era composta da Licio Gelli,
Stefano Delle Chiaie, Francesco Pazienza, il senatore Berselli e quattro
signori incappucciati di cui due sicuramente americani perché
portavano un cappuccio con disegni hawaiani.
Mentre i giurati si ritiravano nel bunker segreto, si scatenava l’asta per
la ripresa televisiva del premio. La Rai offriva un miliardo e tre
vicedirettori. Berlusconi offriva sei parlamentari socialisti. A sorpresa
la spuntava la nuova pay-tv di Cecchi e Gori, la coppia che da anni
taglieggia e massacra lo spettacolo italiano ben più di uno spot,
senza che nessuno si sogni di protestargli contro. Perciò davanti
alle telecamere cecchigoriche appariva Sandra Milo per scrivere sulla
lavagna cancellata da Valentino la cinquina dei finalisti.
«All’ultimo posto», esordiva la Milo, «Bettino Craxi con
sei voti. Motivazione: benché nel fisico, nello zelo nepotista e
nella prepotenza verbale ricordi certamente Mussolini, è traviato
dall’amicizia di alcuni vecchi socialisti. Spesso perde di vista la
riscossa socialfascista mondiale per avventurarsi su un posto di
sottosegretario a Monza. Deve ingoiare ancora molti rospi, se vuole
diventare duce». Una bordata di fischi ha accolto questo annuncio.
Per protesta Intini ha lasciato la sala e le sorelle Carlucci hanno lasciato
i fidanzati.
Al quarto posto si è piazzato Armando Cossutta con dieci voti e la
seguente motivazione: «Benché affezionato a una parte di storia
stalinista sicuramente consona allo spirito del premio, e benché
abbia rotto le scatole al Pci molto più di alcuni di noi, resta
pur sempre legato a parole d’ordine inconciliabili con la sana mistica
fascista». (Qualche mugugno di protesta, bestemmie in ucraino).
«Al terzo posto», ha proseguito la Milo, «con venti voti
Umberto Bossi della Liga Lombarda. Pur ricordando il Duce in atteggiamenti
quali la trombonaggine teatrale, il machismo da avanspettacolo e il razzismo,
manca il “phisique du rôle” ed è odiato dai camerati
di Arezzo, Reggio Calabria e Catania che tanto hanno fatto per la nostra
causa». (Fischi e lancio di qualche luganiga isolata).
Al secondo posto con sessanta voti Pino Rauti. Motivazione: «Pur
definendosi erede della tradizione fascista l’ha annacquata con inutili
filosofismi, ha strizzato l’occhio a sinistra e anche se al momento delle
sentenze sulle stragi è tornato a deliri hitleriani, è troppo
fighetto e professionale per un fascismo che ora più che mai ha
bisogno delle idee di kappler e Samtex». (Lancio di tartine e timers
contro la giuria).
Ed ecco che, mentre nella sala scendeva un profondo e nostalgico silenzio,
Gelli in persona ha annunciato: «Vince il Mascellone d’oro, con
centosei voti, Giulio Andreotti. Per l’uso assolutamente privato del
potere politico e dei servizi segreti, per il rituale disprezzo verso
l’opinione pubblica e il Parlamento, per la capacità di occupare
ore e ore il balcone televisivo, per aver coperto anni di strategia
della tensione e avere unito nell’assoluzione bancarottieri del Nord
e mafiosi del Sud».
Alcuni fischi si sono levati qua e là. Gelli ha subito letto il
testo della nuova lapide proposta da Andreotti per la stazione di Bologna:
«Qui ottantacinque turisti / morirono casualmente /
per non aver osservato / la partenza intelligente».
Un boato di entusiasmo ha accolto questa geniale trovata. Andreotti ha
sollevato in aria il premio, un busto mussoliniano di oro puro del peso
di venti chili, ricavato da un’otturazione dentaria di Cirino Pomicino.
In quell’attimo si è capito che, insieme alla guerra, era tornato
il Duce che tutti aspettavano. Ha chiuso la serata un duetto tra Mietta
e Mango e uno spettacolo di fuochi naturali offerto dalla Protezione
Civile.